UNA BREVE STORIA DEGLI ANTIOSSIDANTI IN NUTRIZIONE. C’E’ SPAZIO ANCHE PER LA BIRRA?

“…e mi raccomando non dimentichi di assumere frutta e verdura, ricche di antiossidanti naturali che proteggono dall’attacco dei radicali liberi, che causano malattie degenerative ed invecchiamento ! “

L’ esortazione di nutrizionisti ed “esperti”, promossa oggi attraverso tutte le forme di informazione mediatica, ha raggiunto ormai livelli di popolarità tali da farla divenire, per consenso generale, realmente vera e scientificamente fondata.
Sfortunatamente non è vero, o per lo meno non è tutto cosi’ semplice.
Un buon approccio per capire il vero significato degli antiossidanti in nutrizione, senza dimenticare la chimica e la biologia, puo’ essere quello di ripercorrere la loro storia scientifica e l’evoluzione del pensiero che ne ha messo in luce i possibili effetti benefici e che è stato alla base anche di inopportune esagerazioni.

Gli antiossidanti sono stati per la prima volta utilizzati nel XIX secolo nell’industria della gomma, quando si è osservato che alcune molecole, identificate empiricamente, potevano rallentarne la degradazione e permettere un’ottimizzazione del processo di vulcanizzazione. Oggi sappiamo che nella produzione e nell’uso della gomma hanno luogo reazioni cui partecipano radicali liberi ed ossigeno e gli antiossidanti sono ancora oggi un utile strumento nelle mani di chi deve ottimizzare le prestazioni dei nostri pneumatici.
Nel XX secolo gli antiossidanti sono poi entrati nell’armamentario della nascente industria alimentare, come strumento chiave per frenare la degradazione ossidativa degli alimenti conservati. Al riguardo c’e’ da dire che, non essendo a quel tempo noti i meccanismi ne’ delle ossidazioni ne’ dell’effetto antiossidante, la connotazione di “antiossidante” non poteva essere che empirica, raggruppando qualsiasi composto o procedura che portava al risultato di rallentare la degradazione e l’irrancidimento. Ne’ è conseguita un’imprecisione semantica che spesso porta ancor oggi ad una definizione diversa di antiossidante tra chimici, biologi e tecnologi alimentari.
Se anche non si conoscevano i radicali liberi, era noto gia’ alla fine del Settecento che l’ossigeno, quella molecola presente nell’aria e purificata da Scheele in Svezia ed interpretata in termini moralistici da Priestley in Inghilterra che ne sconsigliava l’abuso, aveva un ruolo estremamente importante per la vita, ma anche per la degradazione del materiale biologico.
La sperimentazione di Lavoisier aveva poi permesso di collegare la respirazione alla combustione ed alle ossidazioni e di cancellare definitivamente la teoria del “flogisticon” che reggeva dai tempi di Aristotele. La sperimentazione di Lavoisier, s’interruppe violentemente sul palco della ghigliottina, ma aspetti pratici delle sue scoperte ebbero subito un’applicazione pratica: sembra che Napoleone nella campagna d’Egitto avesse gia’ delle confezioni di carne conservata sotto vuoto!

La piu’ rilevante dimostrazione moderna del ruolo in biologia delle ossidazioni radicali si data nei primi anni 50, quando a Buenos Aires Rebecca Gerchman and Daniel Gilbert scoprirono che l’effetto tossico delle radiazioni era enormemente amplificato dalla presenza di ossigeno. Ne emerse il concetto che una volta che la radiazione ionizzante abbia prodotto un radicale libero (molecola o atomo con un elettrone spaiato in un orbitale esterno) questo possa iniziare una catena di reazioni ossidative cui partecipa l’ossigeno. L’ approfondimento a livello chimico-fisico della struttura dell’ossigeno permise poi di chiarificare un processo sugli elementi di base che accomunano il danno da radiazione all’irrancidimento del prosciutto! La teoria portava poi ad un corollario rilevante sul ruolo degli antiossidanti: se le reazioni ossidative sono a catena, una sola molecola che intercetti il radicale iniziatore o propagatore, previene tutta la catena. Ne consegue che solo le reazioni radicali che innescano catene possono essere oggetto di un inibizione funzionalmente valida da parte degli antiossidanti: un concetto che, anche se semplice, è oggi spessissimo dimenticato.

Sul versante degli antiossidanti, una pietra miliare dell’evoluzione della conoscenza è stata la scoperta di Albert Szent-Györgyi, negli anni Trenta, che, partendo dallo studio delle ragioni dell’imbrunimento delle mele, scoprì la vitamina C. Lo stesso ricercatore studiò anche l’effetto antiossidante dei polifenoli presenti nei vegetali e ne propose una funzione vitaminica (Vitamina P) che pero’ non resse alla critica dell’assenza di sindrome carenziale, elemento fondamentale per la definizione di una funzione vitaminica.

Il contorno culturale cominciava ad essere abbastanza definito negli anni 50-60: si sapeva che la respirazione (che è una forma controllata di combustione) richiedeva un’attivazione dell’ossigeno e che nella respirazione si potevano generare radicali liberi. Su queste basi, integrate da acute osservazioni di natura medica e fisiopatologica, Denim Harman propose la teoria dell’invecchiamento da radicali liberi: Se dobbiamo usare ossigeno per le nostre conversioni energetiche, non possiamo sfuggire alla sua tossicità che poco alla volta ci deteriora. L’ acutezza della proposta ha avuto conferme sperimentali in biologia, per cui è oggi generalmente accettato che la vita massima potenziale di una specie è determinata in buona parte, anche se non completamente, dalla capacità di difendersi dalle ossidazioni. La teoria è stata verificata su piccoli animali che effettivamente vivono di più quando maggiormente protetti dalle ossidazioni, ma, sfortunatamente, la storia è molto più complessa negli animali superiori, uomo compreso. E non esiste ad oggi una solida conferma della teoria dell’invecchiamento da radicali liberi dell’ossigeno, applicabile agli animali superiori.

Non si vive di più assumendo antiossidanti!

Il che non toglie comunque validità alla nozione che una dieta salutare contenga anche antiossidanti, ma il meccanismo è probabilmente diverso, come vedremo tra poco.

Questo insieme di informazioni ha stimolato, dagli anni 70 alla fine del secolo scorso, un’enorme quantità di studi sui meccanismi radicali, le loro conseguenze biologiche e sui meccanismi di difesa. Al riguardo sono stati descritti i sistemi enzimatici di difesa antiossidante –che son quelli di gran lunga più rilevanti- e si è chiarito cosa debba fare un antiossidante naturale che funzioni da “free radical scavenger”, e come lo faccia. L’ informazione scientifica è quindi oggi disponibile per interpretare fenomeni dal livello cellulare a quello della meccanica quantistica.

Ma quale è il risvolto medico e nutrizionale di tutto ciò?

Le prime risposte non possono venire che dall’epidemiologia che negli ultimi anni ha visto un’esplosione di significato, qualità e quindi di rilevanza. In pratica studi epidemiologici di varia natura concordano che “assumere antiossidanti con la dieta fa bene” rispetto alla riduzione di rischio di malattie cronico-degenerative –principalmente l’aterosclerosi e probabilmente alla riduzione del rischio di cancro. Il sillogismo per cui erano in causa i meccanismi chimici di reattività ossido-riduttiva degli antiossidanti era poi sostenuto da una rilevante quantità di studi in vitro o su modelli cellulari che dimostravano vari effetti delle diverse molecole –generalmente polifenoli-.

Una più accurata disamina pero’ delle concentrazioni ottenibili nell’organismo rispetto a quelle necessarie per ottenere un aumento delle difesa antiossidante sembra escludere ogni realistico effetto antiossidante in vivo dei diversi polifenoli alimentari. In pratica, i soli antiossidanti alimentari che ragionevolmente possono avere in vivo un effetto antiossidante sono la Vitamina C e la Vitamina E. La loro sindrome carenziale, pero’, è quella tipica dell’avitaminosi e non certo quella che ci si aspetterebbe da una carenza di difesa antiossidante. Non solo, ma gli studi di intervento con antiossidanti (principalmente la Vitamina E) non hanno prodotto risultati positivi conclusivi rispetto invecchiamento e malattie cronico-degenerative….anzi. E allora??

Le risposte ragionevoli all’apparente contraddizione sono essenzialmente due:

a) non son tanto gli antiossidanti di una dieta “far bene” quanto una dieta che li contenga nel suo insieme.
b) Alcuni (o molti) antiossidanti alimentari possono avere degli effetti a bassissime concentrazioni nell’organismo, ma questo è indipendente dall’azione antiossidante.

Entrambi i meccanismi hanno una certa ragionevolezza scientificamente sostenibile.

La salubrità della dieta nel suo insieme, premessa un’ottimizzazione delle quantità e rapporti tra i nutrienti, prevede anche di minimizzare l’apporto di grassi ossidati o molto ossidabili. Nella prevenzione di questo, non possono non avere un ruolo fondamentale gli antiossidanti presenti nel cibo o comunque nel pasto nel suo insieme, e che fanno il loro lavoro, nella conservazione, nella cottura e nella digestione, quando il limite della biodisponibilita’ e dell’assorbimento non ha alcuna rilevanza. Sono a questo riguardo esemplificative le tradizioni popolari per cui, nella preparazione o nel consumo di un cibo contenente grassi ossidati vengono associati antiossidanti (cipolla, aglio, pomodoro, insalata ecc) nella cottura o nella composizione del pasto.
Nello studiare fenomeni di questo tipo noi abbiamo recentemente pubblicato dei dati sulla formazione di lipoproteine alterate e plausibilmente aterogene in soggetti che assumevano un hamburger, dimostrando poi che questa formazione era prevenuta dall’assunzione contemporanea di vino o delle sue componenti fenoliche principali (procianidine). Questo studio, confortato poi da altri in letteratura faceva riferimento al meccanismo da “danno post-prandiale” della aterogenesi che prevede che sia il complesso degli alimenti assunti in un pasto, e la durata complessiva delle fasi post-prandiali, l’elemento di rischio biologico che si concretizza nella destabilizzazione strutturale delle lipoproteine circolanti.

Sull’ altro versante, si è oggi evidenziato che molte sostanze naturali di natura polifenolica, e funzionalmente antiossidanti, possono agire modulando l’espressione dei geni, un meccanismo che poco o ‘a a che fare con le transizioni ossido-riduttive tipiche dell’effetto antiossidante. L’acquisizione di questo tipo di informazioni è ai suoi albori, essendo sostenuta da complesse analisi di espressione solo oggi possibili a seguito dell’elucidazione del genoma. In altre parole gli antiossidanti fenolici alimentari si configurano come elementi di regolazione “nutrigenomica”, per usare un pratico quanto brutto neologismo.

Tra gli effetti di regolazione della risposta cellulare evidenziati sinora, si ricorda un’aumentata resistenza all’apoptosi (morte cellulare controllata), una diminuita reattività agli insulti cellulari di varia natura, e, talora, un’aumentata capacità di riparazione del danno biologico. Nell’ insieme, le modificazioni dell’espressione genica, per l’assunzione di polifenoli alimentari, è compatibile con una maggiore resistenza all’insorgere di malattie cronico-degenerative che vedono come elemento patogenetico un’aumentata risposta cellulare ad un insulto di varia natura.

E’ questo in conclusione, il contesto in cui correttamente potrebbe esser inquadrato il ruolo della birra come alimento.
Come altre bevande, alcoliche o no, tè, caffé, spremute di frutta e vino, anche la birra contiene una certa quota di antiossidanti fenolici, che, se anche poco disponibili, possono fare il loro effetto nel tubo digerente durante la digestione a livello gastrico, oltre ad avere un possibile ruolo di natura nutrigenomica. Se, e come, si possa proporre un ordine di efficacia è un’operazione estremamente complessa, che richiede la concordanza di dati epidemiologici, risolti per le diverse componenti, e di dati biologici sul meccanismo d’azione.

La ricerca da fare nel settore è quindi ancora lunga.

Per quello che riguarda la birra, si potrebbe ripercorrere la cultura che ha negli ultimi anni messo in luce l’effetto protettivo dell’assunzione moderata di vino. Le differenze tra vino e birra ci sono….e non sono solo di natura organolettica o di contenuto alcolico. La birra ha meno polifenoli, rispetto al vino rosso, ma contiene alcuni composti abbastanza peculiari, principalmente derivati dal luppolo di natura fitoestrogenica, il vino contiene molecole su cui si centra l’attenzione dei ricercatori come le procianidine e il resveratrolo, la birra ha meno capacità antiossidante complessiva, ma questa può aumentare anche notevolmente con le procedure di tostatura che generano prodotti della reazione di Maillard che sono potenti antiossidanti, potenzialmente attivi in fase digestiva. In questo senso le more sarebbero meglio delle rosse e queste delle bionde.

Le premesse ci son tutte quindi per suggerire, se proprio si vuol mangiare un hamburger o qualcosa di equivalente, l’assunzione di birra in alternativa ad un po’ di vino, operando la scelta su base di gradimento organolettico o della opportunità della riduzione del tasso alcolico. L’ opzione per altre bevande, anche se molto popolari, non fan parte del bagaglio culturale, delle simpatie e del convincimento scientifico dello scrivente.

Fulvio Ursini
Dipartimento di Chimica Biologica
Universita’ di Padova

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